Nella Maremma toscana c’era un allarme.
Un branco di lupi scorazzava in giro e faceva gran paura a tutti, avevano già trovato quindici pecore uccise e altrettante che vagavano impaurite, con gli occhi neri e strabuzzati, tra le colline.
Nessun cane da pastore era riuscito nel suo intento e un paio di loro erano stati assaliti da quel gruppo di belve affamate, ed erano tornati con la coda tra le gambe dai loro proprietari.
La neve aveva preso a scendere con insistenza e il gelo rivestiva i rami spogli degli alberi con un velo di ghiaccio azzurrino e lucido.
Anche il cielo sembrava voler cadere su quegli orizzonti, la luce del biancore invernale durava poco e si arrendeva al buio alle prime ore del pomeriggio.
Non era una bella stagione, no, no, non lo era per niente.
Gli animali erano in letargo e le persone pensavano all’estate passata e sembrava che anche gli alberi fossero in attesa, proiettati vero la prossima primavera.
Il silenzio dominava i campi gelati e solo alcuni corvi si arrischiavano per trovare qualcosa da mangiare, sulle distese di verde ghiacciato talvolta si scorgeva un puntino nero che inseguiva qualche bestiolina risvegliata, a forza, dal suo dormire. Gli squittii di topolini dal pelo arruffato e il gracchiare di uccellacci neri erano gli unici rumori che si sentivano.
Ogni tanto un corvaccio riusciva nella sua impresa e lo si vedeva spiccare il volo, compiendo piccoli balzi, con la sua preda che si agitava tra gli artigli, erano agonie brevi che terminavano dopo pochi attimi in paralisi fulminee.
Le notti erano fredde, tanto fredde, e tutto quel gelo suggeriva che la natura volesse essere lasciata in pace per un po’, per quell’inverno, almeno.
Dietro il muro di nuvole si alternavano il Sole e la Luna che sembravano ignorare tutto, però.
Cosimo si svegliava presto e attizzava il fuoco gettando nel camino la legna che non era ancora marcita, si metteva una maglia sopra l’altra e indossava due paia di calze, si schiacciava il cappello di lana fino alle orecchie e tossiva, bestemmiando, ogni mattina.
Poi guardava fuori con gli occhi socchiusi per il riverbero delle prime luci dell’alba, e per il sonno. Si scaldava l’acqua e se la buttava con violenza sul viso, solo la domenica si lavava completamente, e oggi era solo martedì.
Poi prendeva il fucile da cacciatore, ne oliava il manico, puliva la canna e ci infilava i proiettili contandoli uno ad uno.
Beveva, tutto in un sorso, un bicchiere di grappa e usciva in perlustrazione.
Le guance si arrossavano per la grappa, per il freddo, e ogni volta che trovava una gallina sgozzata o un agnello morto.
Quella notte dovevano essere passati i lupi e anche il recinto dei conigli sembrava forzato e tutti erano scappati. C’erano strisce di sangue che andavano in traiettorie diverse e anche quello stupido cane da guardia che aveva comprato mancava all’appello.
Il rosso di quelle linee era diluito dalla neve che c’era a terra e acquistava una colorazione rosea e delicata e ciuffi di pelo, sparsi qua e là, raccontavano dove la battaglia si era fatta più feroce.
Cosimo girava la testa a destra e sinistra ma non vedeva bene.
Non riusciva a vedere perché era miope e anziano, non focalizzava né da vicino né da lontano perché i suoi occhi lo stavano abbandonando dopo aver passato ottantatre estati e altrettanti capodanni, così ripiegò verso la sua cascina ma poco prima di rientrare si ricordò della trappola, di quell’aggeggio che aveva messo per catturare gli invasori.
Girò attorno al fienile e percorse pochi metri facendo scricchiolare le lastre di ghiaccio sotto i suoi passi. Spostò i rami dell’albero di cachi e stringendo gli occhi a fessura notò un animaletto che esausto aveva smesso di dimenarsi, imprigionato nella trappola.
Quella bestia doveva aver passato lì tutta la notte e aveva perso parecchio sangue.
Era un lupo, un cucciolo i cui baffi erano sbiancati dal ghiaccio e gli occhi desolati e vitrei come se dovesse morire ibernato a minuti.
Non fiatava, non guaiva, non si muoveva, osservava Cosimo con la coda immobile e rigida, e sembrava aspettasse il colpo di grazia.
E lui d’istinto tirò su l’arma con decisione, arretrò di un passo per avere una distanza accettabile, aprì le gambe per bilanciare il peso, s’inumidì le labbra con la punta della lingua, e centrò la testa dell’animale nel mirino dell’arma.
Tentennò qualche secondo, poi si passò la manica del giubbotto sul viso e asciugò il naso con il dorso della mano.
Tergiversò per un po’, forse troppo, ritirò su il fucile e poi lo riabbassò, poi lo risollevò ancora.
Fu raggiunto da un guaito, in lontananza, che lo distrasse. Spostò il suo campo visivo e strinse gli occhi fino a che non mise a fuoco quello che si stava muovendo tra le sterpaglie.
Era un altro lupo, sicuramente la madre del cucciolo che stava osservando la scena a distanza, l’animale rimaneva immobile e fissava dritto negli occhi l’uomo. Era uno sguardo severo, metallico, duro.
Il respiro di Cosimo si condensava in nuvolette appena usciva dalla bocca e si dissolveva nell’aria.
Lui s’inginocchiò, traballando, appoggiando il fucile e usandolo come se fosse un bastone.
Con le mani gelide, ma sudate, e non poco sforzo aprì la dentatura metallica della morsa della trappola, l’istinto incondizionato della bestiola gli impose di morsicare quell’omone che si reggeva sue due gambe spesse come tronchi d’albero, così Cosimo gli tirò un sberla sul muso per poi serrargli la bocca con la mano sinistra.
La madre ebbe un sussulto ma non si mosse, forse già consapevole di come sarebbe andata a finire.
Cosimo liberò la bestiolina che gli voltò le spalle senza degnarlo di uno sguardo e zoppicando raggiunse la lupa, quando furono vicini entrambi scodinzolarono e gemettero in un dialogo che non aveva bisogno di spiegazioni.
Cosimo rimase lì, in ginocchio, alla stessa altezza dello sguardo della lupa.
Poco prima di sparire, la madre di quell’animale, rallentò il passo e si girò verso di lui in un ultimo sguardo.
E fu proprio in quegli occhi, in quelle lame di luce che lo tagliarono, che Cosimo capì.
Comprese della compassione ignorata, dell’innocenza violata, della pietà dimenticata, dell’altruismo abbandonato.
A Cosimo tutto, improvvisamente fu chiaro e, con chirurgica freddezza, realizzò che era tardi e oramai tutto era perduto.

(Christiano Cerasola)